Audioguida del Parco Mediceo di Pratolino

1. Introduzione

Benvenuti nel Parco mediceo di Pratolino che fa parte del sito seriale “Ville e giardini medicei in Toscana”, Patrimonio Mondiale UNESCO dal 2013, di cui fanno parte 14 ville e giardini appartenuti alla famiglia Medici dislocati sul territorio della regione Toscana e che rappresentano esempi eccellenti della villa aristocratica di campagna dedicata al tempo libero, alle arti e alla conoscenza.

Il Parco Mediceo di Pratolino, noto anche come Villa Demidoff, si trova a poca distanza da Firenze e si estende su una superficie di circa 155 ettari.
Nel 1568 Francesco I acquistò da Benedetto Uguccioni una proprietà che si allargò grazie agli acquisti effettuati nei decenni successivi. Francesco destinò questo spazio alla realizzazione di una villa in cui recarsi con la sua amante, la nobildonna veneziana Bianca Cappello, che non era ben vista dalla corte fiorentina.
Annoiati e insoddisfatti dei propri matrimoni, i due infatti iniziarono una storia d’amore clandestina poco tempo dopo essersi conosciuti, si sposarono solo nel 1578, dopo la morte della consorte di Francesco, la Granduchessa Giovanna d’Austria.
Francesco affidò il progetto della Villa a Bernardo Buontalenti che, insieme a scultori, esperti di idraulica e altri artisti trasformò Pratolino in un vero e proprio giardino delle meraviglie in cui il granduca e i suoi ospiti, e soprattutto la sua amata, potessero svagarsi.
Tuttavia il loro idillio amoroso durò poco: nel 1587 dopo una cena presso la Villa di Poggio a Caiano i due morirono tra tremende sofferenze a pochi giorni di distanza l’uno dall’altra. Dopo la morte di Francesco solo il Gran Principe Ferdinando si occupò del parco, che dopo essere passato ai Lorena in seguito all’estinzione del casato mediceo fu venduto alla famiglia Demidoff nel 1872.

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2. La Villa perduta

Un tempo nel parco di Pratolino si ergeva una splendida villa progettata dall’architetto di corte Bernardo Buontalenti. I successori di Francesco, fatta eccezione per il Gran Principe Ferdinando, non erano interessati al parco e alla villa che fu quindi irrimediabilmente compromessa dall’incuria e dal tempo e fu demolita nel 1820.

Esistono però delle opere preziose che testimoniano l’aspetto che le ville medicee, non solo quella di Pratolino, avevano all’inizio del XVII secolo. Il pittore vedutista Giusto Utens dipinse 17 lunette, delle quali 3 sono andate perdute, che descrivono l’aspetto delle principali ville medicee mettendo in risalto i particolari che rendevano unico ogni possedimento.
Pur dipingendo solo la metà verso sud, la nostra lunetta descrive il giardino più ampio di tutte le tenute di famiglia, caratterizzato da una forte presenza d’acqua che alimentava le fontane e il viale degli zampilli e rendeva mobili degli automi: straordinarie invenzioni che suscitavano l’ammirazione di tutti i visitatori. La villa aveva una struttura simmetrica, con le cornici delle finestre che si stagliavano sull’intonaco bianco, era corredata da un sontuoso terrazzo e al suo interno i saloni e gli appartamenti reali erano finemente arredati e decorati da stucchi e pitture. Nel 2014 le lunette sono state trasferite a Villa medicea La Petraia, dove possono essere ammirate tutt’oggi.

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3. Il Parco

Il parco di Pratolino rispondeva perfettamente ai canoni del giardino rinascimentale: l’artista Niccolò Tribolo si occupò di progettare le curatissime aiuole che dividevano gli spazi del parco in maniera ordinata e speculare, creando viali e quinte scenografiche.

Immancabili erano i giochi d’acqua, le mille fontane e gli automi animati proprio dalla forza idrica: Pratolino era il parco con la maggior presenza di questi elementi.
Per garantire un adeguato afflusso idrico, Buontalenti fece realizzare un’imponente opera idraulica che da Monte Senario portava l’acqua fino alla parte alta del Parco.
Il giardino in voga in questo periodo prende il nome di giardino all’italiana ed era caratterizzato da una forte geometria e simmetria; le aiuole curatissime dividevano gli spazi del parco in maniera ordinata e speculare, dove la prospettiva creava incredibili viali.
Durante il governo dei Lorena il parco non fu curato e perse le sue caratteristiche decorazioni geometriche. Al contrario, molti elementi decorativi furono spostati nel Giardino di Boboli e alcune porzioni di terreno furono affittate.
Nel 1814 il Granduca Ferdinando III affidò a Joseph Frietsch il riordino del parco, che perse l’aspetto di giardino rinascimentale per diventare un parco romantico.
Questa tipologia, chiamata anche parco all’inglese, nacque in seguito a una sensibilità che si sposava con i concetti di pittoresco e sublime, in voga a partire dal XVIII secolo. Il giardino romantico rigettava la geometrica circoscrizione dello spazio ed esaltava la forza della natura, vera protagonista del parco, non più costretta in innaturali simmetrie. Le fronde degli alberi, i ruscelli, i sentieri tortuosi, contribuivano a creare un’ambientazione suggestiva e sempre stimolante per il visitatore.

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4. Il Gigante

Il Colosso dell’Appennino è certamente la punta di diamante del Parco di Pratolino, fu realizzato tra 1579 e 1580 dall’artista fiammingo Giambologna, estremamente apprezzato dalla corte medicea.

Il gigante è colto nel momento del risveglio o della nascita dalla montagna; preme con la mano sinistra la testa di un mostro e dà così nuovo vigore al flusso dell’acqua che alimentava la grande vasca ai suoi piedi, oggi sostituita da una peschiera. L’immensa statua era originariamente incorniciata da una grande nicchia, realizzata in spugne e pomice.
I documenti relativi alla costruzione del Colosso lo citano come «Gigante», «Appennino» e «Fiume Nilo». Si ipotizza che inizialmente Giambologna avesse in mente di realizzare una figura allegorica del fiume africano, scelto per i suoi significati simbolici di abbondanza e prosperità. Probabilmente in corso d’opera si scelse di trasformare il Gigante in una rappresentazione dell’Appennino, nell’atto di destarsi e smarcarsi dalla montagna retrostante, senza voler tuttavia escludere categoricamente il rimando fluviale. Nel progetto del Giambologna era inclusa anche un’allusione alla Gigantomachia, la lotta tra titani che vide trionfante Giove, rappresentato seduto su un trono nella fontana situata in uno dei punti più alti del parco.
Il mostro che il Colosso trattiene a terra con una mano e dalle cui fauci sgorgava l’acqua fu fortemente modificato nel corso del tempo: le fonti più antiche lo descrivono come teste di leone, di cane o anche di drago. Durante i lavori tardo seicenteschi diretti dal Foggini fu trasformato in un delfino, animale estremamente caro alla famiglia Medici, e, ormai eroso e illeggibile, fu successivamente trasformato nel rettile che possiamo vedere oggi. La parete rocciosa da cui si liberava il gigante fu demolita e alle sue spalle fu posto un drago in pietra. Il motivo che spinse Ferdinando e Giovan Battista Foggini ad alterare l’originaria iconografia del Gigante non è chiaro, è comunque molto probabile che gli elementi del gruppo scultoreo rappresentino più di un concetto: la fecondità e la prosperità che la divinità montana dispensa al territorio tramite l’acqua e la celebrazione del potere a cui rimanda l’allusione alla gigantomachia, dove il gigante sconfitto si inchina al suo signore Francesco I.
Il gruppo dell’Appennino ospitava grotte, camere e passaggi interni andati quasi completamente distrutti, gli ambienti rimasti purtroppo non sono visitabili. La camera ipogea conserva l’antico pavimento in cotto e alcune delle conchiglie che ne decoravano le pareti; la perduta Grotta di Tetide era decorata da stucchi e pittura all’antica, la preziosissima fonte al centro dell’ambiente era sorretta da quattro delfini che tenevano un bacino decorato da pipistrelli e lumache rivestiti di madreperla su cui si ergeva la statua di Tetide, in perle e conchiglie.
Il corpo della montagna ospitava la camera delle miniere, una tematica che appassionava particolarmente Francesco I, e la Grotta del «Fiore di corallina», era decorata da un vaso di diaspro e un ramo di corallo di notevoli dimensioni proveniente dal Mar Rosso, da cui sgorgava l’acqua. Da questo ambiente si arrivava alla cameretta della testa, ricavata appunto nel volume del capo del Gigante. Lo Zuccari, basandosi forse su un’informazione del Giambologna, racconta che Francesco I era solito rifugiarsi in questa camera e pescare tramite gli occhi del gigante, all’epoca vetrati come finestre.

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5. La Cappella

La Cappella è una delle poche strutture del parco a non aver subito profonde alterazioni. Costruita nel 1580 su progetto di Bernardo Buontalenti, prevedeva in origine l’accesso principale tramite un vialetto che partiva dal prato davanti alla Villa Medicea.

Oggi vi si accede tramite una scalinata in pietra che parte dal viale della Vecchia Posta.
La cappella, a pianta esagonale, è circondata da una loggia voltata che poggia su quattordici colonnine, coperta da una grande cupola rivestita da lastre di piombo e chiusa da un lanternino.
L’altare, in asse con la porta, conserva ai lati gli stalli originali in cipresso che incorniciano una copia antica dell’Assunta Passerini di Andrea del Sarto, oggi conservata presso la Galleria Palatina di Palazzo Pitti, eseguita Giovan Battista Marmi.
Dopo l’acquisto della proprietà, i Demidoff restaurarono la Cappella senza modificarla e aggiunsero alcune lapidi commemorative a ricordo dei familiari scomparsi. Nel 1885 divenne il luogo di sepoltura del principe Paolo Demidoff, successivamente traslato in Russia. Oggi in quel loculo riposa Annina, una dama di compagnia dell’ultima principessa Demidoff, Maria, che invece è stata seppellita all’aperto nei pressi della stessa Cappella.
La cappella e la sagrestia sono decorate da quadri ad olio di soggetto religioso, commissionati dalla famiglia Demidoff, alcuni dei quali realizzati con la tecnica pittorica a grisaille, ovvero monocromi dove i volumi, le luci e le ombre sono rese tramite varie sfumature di grigio.

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6. La Fontana di Giove

Nella zona più alta del parco sorgeva la Fontana di Giove, realizzata dallo scultore Baccio Bandinelli e sostituita nell’ottocento da una scultura moderna, tutt’oggi visibile nel parco.

I Demidoff non commissionarono una copia dell’antica opera di Bandinelli, quanto piuttosto di una ricostruzione realizzata sulla base delle più antiche descrizioni letterarie. La Fontana di Giove raffigurava il Padre degli Dei nell’atto di scagliare un fulmine di bronzo dorato da cui fluiva l’acqua che ricadeva nella vasca sottostante ed era accompagnato dal suo più tipico attributo, l’aquila, realizzata in marmo nero che spiccava dal candore della fontana. La statua poggiava su un piedistallo di spugne e la nicchia che la ospitava era incorniciata da quattro lesene sulla cui sommità erano posti quattro antichi busti marmorei. La scultura di Baccio Bandinelli doveva originariamente ritrarre il Padre Eterno ed era destinata al Duomo di Firenze, fu per volere di Francesco I che l’opera fu portata a Pratolino. Il Granduca riteneva che la figura di Zeus, governatore dell’universo e delle creature che lo abitano, ben si armonizzasse con gli elementi naturali del parco.
Nel 1764 la fontana era fortemente danneggiata, nel 1824 fu quindi deciso di trasportarla a Firenze e dopo un lungo restauro fu collocata nel Giardino di Boboli.

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7. La Peschieria della Maschera

La Peschiera della Maschera si trova a destra del viale che dall’ingresso principale del parco conduceva alla Villa Medicea e formava la testata di una successione di gamberaie, visibili nella lunetta di Giusto Utens.

La figura della Maschera che dà il nome alla peschiera rappresentava probabilmente il Mar Tirreno; ai lati si aprivano due porticine, tutto il resto della parete era coperto da spugne naturali provenienti da Livorno. Delimitata da parapetti di balaustre, era accessibile tramite due scalette simmetriche addossate al terrapieno di nord. Durante il riordinamento del parco voluto dal Frietsch fu riempita di terra e di macerie e così rimase fino a quando i Demidoff la fecero riaprire; fu allora inserito l’attuale mascherone.

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8. Le due spugne

Tra la vasca di Giove e il gruppo dell’Appennino nel 1584 Francesco I de’ Medici fece porre una fontana ornata da una grande spugna proveniente dalla Corsica.

Probabilmente sotto il regno dello stesso Granduca la spugna corsa fu divisa in due metà alte più di 2 metri che furono inserite all’interno di una coppia di vasche circolari.
Durante il Regno di Ferdinando II di Lorena questa parte del parco era «un crocicchio di viali, e in esso dall’una, e dall’altra parte vi sono eretti due grandi termini di Spugna che servono da ornamento a due capi dei viali».

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9. La Grotta di Cupido

La Grotta di Cupido, progettata dal poliedrico Bernardo Buontalenti, è una delle poche opere del parco arrivate quasi intatte dall’epoca di Francesco I fino ad oggi. Nonostante la perdita degli elementi decorativi l’edificio mantiene la struttura architettonica del 1577.

Si trova addossata a una collinetta, in prossimità della Fonte Rossa, ora scomparsa, e vi si arrivava dalla Fontana del Pallottolaio. Tutta la facciata anteriore era decorata da spugne scolpite in forma di persone e animali, un motivo estremamente in voga all’epoca e riproposto dallo stesso Buontalenti all’interno della Grotta Grande nel Giardino di Boboli. Una pergola di lauri conduceva all’accesso dove tre gradini con scherzi d’acqua portavano all’ambiente interno, decorato da «un amore di bronzo, che con ingegnoso artifizio va girando, e dalle facce, che tiene in mano getta acqua». Nella scarsella era collocata una vasca con un delfino che spruzzava l’acqua all’altezza dei visi dei visitatori.

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10. La Paggeria

Risparmiata dalla demolizione di Giuseppe Frietsch nel 1818, la Paggeria costruita per volere di Francesco I, fu ampliata e modificata dai Demidoff che ne fecero la loro villa. 

Quello che un tempo fu l’alloggio per cortigiani, buffoni e paggi, da cui il nome Paggeria, si trova a nord dell’edificio del guardaroba da cui era divisa da un prato.
Intorno al 1828 Leopoldo II commissionò a Pasquale Poccianti un progetto per rendere l’edificio consono a ospitare i cortigiani. Infatti quando nel 1872 i Lorena vendettero la tenuta di Pratolino ai Demidoff, la paggeria aveva ancora l’originario aspetto buontalentiano, fu Paolo Demidoff a commissionare all’architetto Minucchi il progetto che la rese idonea a diventare la dimora della nobile famiglia.
Nel 1880 i proprietari, desiderosi di ampliare ulteriormente la villa, incaricarono Emilio De Fabris di progettare un salone da utilizzare come galleria, sala di ricevimento, biblioteca e sala da biliardo, tuttavia i costi elevati ne impedirono l’esecuzione. Fu solo con i progetti di Emilio Caramelli e Luigi Fusi che il principe fu accontentato: venne finalmente costruita la grande sala rossa, ancora oggi visibile, ampliando l’edificio della vecchia paggeria. Nel 1886 il De Prato descrisse la nuova Villa Demidoff come una galleria ricca di capolavori; tuttavia, nel 1969 l’allora proprietario, il principe Paolo di Jugoslavia, decise di far vendere tutti gli arredi dalla casa d’aste Sotheby’s, disperdendo così i sontuosi mobili e le raffinate opere d’arte di famiglia.

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11. La Grotta del Mugnone

La Grotta del Mugnone, così come tante altre opere che decorano il Parco di Pratolino, è stata vittima dell’incuria e dell’impietoso passare del tempo.

Raffigurata in alcune incisioni di Stefano della Bella e ricordata dal manoscritto della Biblioteca Vaticana, faceva parte del folto gruppo di grotte del parco.
Nel 1577 era già stato alzato il paramento murario e la scultura raffigurante il Mugnone scolpita dal Giambologna era stata posta in loco. Ai lati della figura allegorica erano stati posti due celebri teatrini di automi: il primo rappresentava la Fama, con un villano che dissetava un drago, il secondo ritraeva il dio Pan con la Ninfa Siringa, andate perdute durante i secoli.
Dopo essere stata distrutta, come il resto della Villa, durante i lavori diretti dal Frietsch, la struttura della grotta fu completamente interrata e solo pochi anni dopo la guerra la Principessa Maria Demidoff riportò alla luce la scultura del Mugnone e la fece ricomporre.

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12. La Grande Voliera

La Grande Voliera doveva essere una sorta di museo ornitologico con ogni specie di uccello. Aveva l’aspetto di un boschetto recintato e composto da edere, alloro e altre piante. Era sostenuta da pilastrini, cavalletti in ferro e reti di rame e all’interno una fontana per abbeverare i volatili.

Terminata nel 1580 fu descritta nel suo aspetto originario dalla lunetta dell’Utens, nel 1875 fu restaurata dai Demidoff e adattata a piscina; in quella occasione fu recintata da una nuova ringhiera in ghisa sostenuta da pilastri in pietra, fu ricostruita la scala in pietra e furono restaurate le spugne della fontana interna.
Attualmente ospita l’opera Amore e Psiche dell’artista contemporaneo Marco Bagnoli.

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13. Le scuderie

Le scuderie del parco furono progettate dall’architetto Bernardo Buontalenti tra il 1579 e il 1580 per il ricovero dei muli e dei cavalli e per l’alloggio dei servitori della Corte.

Il progetto prevedeva un vasto ambiente al pian terreno, coperto da volte e diviso in tre parti da una fila di colonne che formavano al centro un lungo corridoio e ai lati la zona delle mangiatoie. Tramite una scala si saliva al piano superiore, dove si aprivano ventitré camere, gli alloggi degli inservienti; un’altra rampa di scale portava a una loggetta che era aperta e consentiva l’accesso a un’altra serie di stanze. Sul lato nord si trovava anticamente la bottega del maniscalco, posta a diretto contatto con una stalla minore destinata ai muli. Poco più a nord delle stalle si trovava una grande cisterna che consentiva l’approvvigionamento idrico dell’edificio.
Giuseppe Frietsch vi intervenne con opere di trasformazione nel periodo che lo vide direttore dell’Amministrazione del Parco, rivoluzionò la distribuzione degli spazi del vecchio edificio abbattendo le strutture interne: al primo piano fece realizzare un unico ambiente, a struttura neogotica, che adibì a fienile, e al secondo piano le stanze diventarono un magazzino. I quartieri per gli inservienti furono costruiti ampliando quella che una volta era la stalla dei muli e la bottega del maniscalco.

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14. Lo Stradone e Viale degli Zampilli

Un grande viale, lungo 290 metri, discendeva dalla grotta del Dio Pan e dalla Fama fino alla Vasca della Lavandaia tagliando in due parti il parco.

L’acqua, spruzzata dalle fontane poste a sei piedi di distanza, ricadeva nelle pile contrapposte, formando un singolare pergolato idrico sotto il quale era possibile passeggiare senza bagnarsi.
Al termine dello stradone altri giochi d’acqua arricchivano il parco in prossimità della Vasca della Lavandaia.
Restaurato da Alfonso Parigi e dal Ruggeri, lo Stradone delle Fontane è ancora presente nelle sue dimensioni ed è attraversato da un piccolo ponte aereo in ferro, che si erge dove un tempo erano poste due scalette.
I lavori del Frietsch gli hanno dato un aspetto romantico con la demolizione di quasi tutti i manufatti che lo arricchivano e oggi sopravvivono solo delle porzioni di muro con nicchie, panchine ed altri motivi ornamentali.

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15. La Locanda

La locanda è l’edificio più antico del parco, antecedente agli interventi buontalentiani. Deve il suo nome al fatto di essere stata l’alloggio degli ospiti meno illustri o addirittura dei viaggiatori che percorrevano la via bolognese.

Una parte dell’edificio ospitava la stalla comune, una rimessa, una stalla detta “delle carrozze” e una rimessa reale, questa porzione di edificio fu distrutta probabilmente durante i lavori diretti dal Frietsch.
Collegati da una scala interna e una esterna, al piano superiore si trovavano i quartieri delle Maestranze, del Biadaiolo e del Pagliaiolo e quello delle Corazze.
È presumibile che questo fosse l’edificio che nel 1602 ospitò l’oste quando si recava presso la villa e che tra il 1787 e il 1788 servì le maestranze della Fabbrica delle Telerie; l’aspetto attuale della locanda è da imputare agli interventi di Giuseppe Frietsch, le decorazioni esterne invece furono commissionate dalla famiglia Demidoff che intendeva ripristinare l’originaria bellezza dell’edificio.

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